La ribellione dei Bersaglieri e l'intervento della Regia Guardia - Terza parte

- Presidenza Nazionale - Massimo Gay
Copertina de "La domenica del corriere" del 21 luglio 1918

La rivolta

Il gruppo di ribelli, organizzati e armati, fece irruzione al corpo diguardia della caserma, che garantiva vigilanza e controllo dell’accessoprincipale, prendendo in ostaggio l’ufficiale di picchetto in servizionotturno. Assalito il personale del corpo di guardia, quasi tutto colto nelsonno, svegliati e radunati altri commilitoni, i ribelli neutralizzarono unadecina di altri ufficiali rimasti in caserma e altri militari contrari allarivolta, imprigionandoli. Furono tagliati i collegamenti con l’esterno eforzata l’armeria, da cui furono asportate altre armi e munizioni, eposizionata una mitragliatrice davanti al portone d’ingresso; più tardi, nesarebbero state poste a difesa altre due in posizione sopraelevata. Gli insortidedicarono, poi, le loro attenzioni al garage-officina che conteneva cinqueautoblinde, due delle quali in piena efficienza. Quasi tutti i militari, armatie non, si radunavano in cortile tra le grida inneggianti alla rivoluzione,spari e discussioni animate.

Non tardarono ad arrivare all’esterno alcuni cittadini incuriositi, mentre solomolto dopo, vennero allertati i comandi delle forze dell’ordine e militari, chediramarono dispacci urgenti agli alti comandi a Roma. Verso le sei del mattinoiniziò l’accerchiamento alla struttura; nel frattempo, alcuni ufficiali deibersaglieri cercavano di convincere gli assediati a desistere dai loropropositi bellicosi. Constatata la loro riottosità, il Generale in comando DeVecchi ordinò il posizionamento delle forze militari, costituite da unbattaglione di Carabinieri intorno alla caserma, e delle artiglierie inposizione elevata rivolte contro di essa. Si dispose, inoltre, affinché laReale Marina facesse affluire urgentemente rinforzi a Pesaro.

Il Questore Scorzone, dal canto suo, che aveva il coordinamento dicontingenti delle Regie Guardie, dei Carabinieri e del Regio Esercito lungo levie di accesso, perla costituzione di posti di blocco e il posizionamento diarmi automatiche, schierò ulteriori forze per controllare gli eventi. Iniziaronoi primi scambi di colpi di fucile, intervallati da brevi pause, mentre gliinsorti cominciarono a predisporre una autoblinda per l’uscita dalla caserma.Verso le nove una folla, composta perlopiù di donne e bambini inneggianti allarivoluzione, che fraternizzavano coi militari, si pose davanti al portone. Traquesti, alcuni giovani riuscirono ad entrare, uscendone armati con fucili,bombe a mano, mitragliatrici Fiat e Maxim a nastro.

La sollevazione popolare

In città la situazione stava precipitando. Fin dal mattino spontaneamentela popolazione si era armata, con fucili da caccia e moschetti (depredati invarie zone della città),e aveva preso d’assalto case e piccole caserme delcircondario, militari e poliziotti isolati. Si susseguirono vari episodi divera e propria rivolta popolare: vennero assaltati e depredati altri presidimilitari isolati, il che permise di fa affluire ulteriori armi e le munizioniin dotazione ai ribelli che reagirono sparando ai Carabinieri e le RegieGuardie che li contrastavano, causando così le prime vittime anche tra lapopolazione civile. In alcuni luoghi, ove si registrò maggiore resistenza, comealla caserma delle Regie Guardie della ferrovia, assaltata nel pomeriggio,scaturì una sparatoria cruenta, fortunatamente senza vittime.

Nel frattempo, i dimostranti crearono barricate per impedire l’arrivo diCarabinieri e Regie Guardie nella zona di Porta Pia, ove fu posta dagli insortiuna mitragliatrice che sparava incessantemente, manovrata dalle mani esperte diun militare unitosi ai rivoltosi. In via Nazionale, venne ucciso l’AgenteInvestigativo Luigi Cristallini, che riconosciuto mentre passava vicino ad ungruppo di manifestanti fu assalito, picchiato, disarmato e ucciso con due colpidi pistola, probabilmente esplosi dalla sua stessa arma d’ordinanza.

Gli insorti, scappati di fronte alla reazione delle forze dell’ordine, trasferirono la violenza nei sobborghi e nelle cittadine vicine di Marche, Umbria e Romagne, soprattutto a Jesi, Osimo, Tolentino, Macerata, Fabriano e Pesaro. Il 26 giugno a Cesena, l’Agente Investigativo Gennaro Gigli morì pugnalato da un anarchico, mentre si recava al Commissariato presso il quale prestava servizio. A Jesi i moti insurrezionali si svolsero in maniera più organizzata riproponendo la medesima escalation vista in precedenza: sciopero generale, assalto a presidi militari o dei carabinieri, interruzioni delle comunicazioni, asportazioni di armi e munizioni, barricate e, laddove si presentava resistenza, cruenti scontri a fuoco. In uno di questi furono impegnate, il 29 giugno, le Regie Guardie al comando del Maggiore Ettore Fulgenzi, provenienti di rinforzo da Venezia. Fatti segno del fuoco della fucileria dei ribelli annidati sui tetti e nelle case, subirono gravi perdite registrandosi, nell’occorso, la morte della Guardia Eugenio Masotto e il ferimento del suo collega Giuseppe Troso. A Pesaro, in particolare, venne assaltata una polveriera, poi liberata dai Carabinieri, e attaccata una caserma dalla quale venne respinta la folla a fucilate. Il bilancio fu di un morto e due feriti. Al Colonnello Trapani, che aveva ordinato di sparare sui rivoltosi, fu incendiata la casa con i dentro familiari, che a stento riuscirono a salvarsi. Cento Regie Guardie mandate di rinforzo a Pesaro con una nave salpata dal porto del capoluogo dorico, ricongiuntesi con altre provenienti da Chiaravalle (AN), ristabilirono finalmente l’ordine.



Prima pagina del "Messaggero" pubblicato a Roma il 29 giugno 1920.

Epilogo

Presi a pretesto i fatti delle due rivolte il Capo del Governo Giolitti, soprattutto in quanto sollecitato dalle opposizioni, diede disposizione di prendere contatto con gli Albanesi e di porre termine all’occupazione di Valona, protrattasi per troppo tempo. Il Conte Gaetano Manzoni, diplomatico, fiduciario del Ministro degli Esteri Carlo Sforza, raggiunse, quindi, un accordo col governo di Tirana, apponendo la propria firma al concordato che prevedeva l’abbandono immediato di Valona in cambio dell’isola di Saseno dominante la baia, incluso lo sfruttamento di alcuni giacimenti di idrocarburi e di carbone. L’Italia profuso il massimo sforzo nel tentativo di conquista dell’Albania ne otteneva il minimo risultato, rinunciando definitivamente al suo protettorato. Nel processo Villarey, celebratosi dall’8 al 21 febbraio 1921, la Corte d’Assise di Ancona condannò 13 soldati con pene comprese tra i 6 anni di reclusione militare e gli 8 mesi e 20 giorni. Nessun civile, tra quelli rinviati a giudizio, fu condannato. Per le cosiddette Giornate rosse venne promulgata sentenza di assoluzione di tutti i rinviati a giudizio meno uno l’ex bersagliere Lionello Orciani, manovratore della mitragliatrice, che fu condannato a 20 anni di reclusione militare. Dopo i moti, Orciani riuscì ad espatriare clandestinamente e a tornare in Argentina, da dove era giunto nel 1917 per rispondere alla chiamata della leva obbligatoria, facendo perdere per sempre le sue tracce. Monaldo Casagrande (detto Malatesta),che inizialmente si era allontanato da Ancona per dirigersi in America, fu arrestato a Genova su indicazione di un fiduciario della locale Questura. Scontata la pena di 6 anni alla quale era stato condannato, emigrò in Argentina dove visse con la moglie e i figli fino alla sua morte avvenuta nel 1949. Dalla sentenza emerge come, sebbene in presenza di accuse gravissime, per non esacerbare ancora di più gli animi e per timore di nuove sovversioni, si comminarono pene generalmente miti o assolutorie ricorrendo al cosiddetto ‘reato di folla’. Nell’estate del 1924, in seguito ad alcune indiscrezioni giornalistiche si riaprirono le indagini imperniate sulle circostanze della morte del Tenente Ramella, avvenuta il 26 giugno 1920 durante l’attacco ad una colonna di rifornimenti diretta a Forte Savio. Queste terminarono con il rinvio a giudizio di 15 imputati, 5 ancora latitanti. Il giudizio fu per legittima suspicione trasferito innanzi alla Corte d’Assise dell’Aquila che ben due anni dopo ne condannò9 a pene varianti dai 29 anni di reclusione, inflitti all’Orciani, ai 12 anni e 1 mese. Per tutti gli altri si aprirono le porte del carcere grazie a sconti di pena e allo scomputo della carcerazione preventiva già subìta.Alcuni ufficiali con i loro comportamenti (11 in totale compresi due del reparto automobilistico) vennero ritenuti dal Generale Albricci presente personalmente ad Ancona per accertare i fatti e le cause della insurrezione, in parte responsabili della rivolta. Questi ne decretò la punizione con pene varianti da tre a due mesi di arresti in fortezza e il trasferimento omettendo, per motivi di opportunità, il deferimento alla Giustizia Militare. Onde cancellare il disonore per la secessione anconetana l’11° Bersaglieri venne trasferito in Friuli, aCormons (UD). Il Maggiore Efisio Tolu, seppure non avesse commesso alcun reato,anzi avesse ripristinato la calma nella caserma, di fatto venne ritenuto attendistae accusato di scarsa iniziativa. Per sottrarsi ad un ambiente ormai viziato daipregiudizi nei suoi confronti fece domanda per l’incorporamento nella RegiaGuardia.

Cartolina celebrativa che riproduce la lapide posta all'interno dei locali della Questura di Ancona, ora rimossa.

Il tragico risultato della rivolta aveva visto cadere sul campocomplessivamente 26 morti, 11 tra le forze repressive e 15 tra i civili; iferiti ammontavano a 79, 11 tra le forze dell’ordine e 68 tra i rivoltosi (talenumero è da ritenersi verosimilmente superiore perché molti semplicemente preferironofarsi curare  in casa per non avereproblemi con la giustizia).

Nei giorni delle sollevazioni svoltesi in diverse cittadine venneroferiti, anche mortalmente, numerosi appartenenti alla Polizia. Ad Ancona perironoil Vice Commissario d'Aria Pierantonio, il Vicebrigadiere Fargioni Sante, ilTenente Rolli Umberto, l’Agente Investigativo Luigi Cristallini e a Jesi laGuardia Masotto Eugenio. I nomi dei caduti erano inscritti su una lapide, postaall'interno della locale Questura che ne ricordava l’estremo olocausto. Neglianni ’80, trasferita la sede in una nuova struttura logisticamente più idonea,la lapide è stata rimossa.